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Nei Paesi Nordici quando una persona parla dei propri familiari, li presenta come il marito, la moglie, il figlio, la figlia. Non dice “mio” marito, “mio” figlio. Perché sa che non le appartengono. E questa convinzione è talmente radicata nella loro cultura da essersi trasferita anche nella comunicazione di tutti i giorni.
Io credo che dovremmo farlo anche noi. Non c’è nulla di male nel dire “questo è mio figlio”, ma quando lo diciamo dobbiamo anche ricordare a quella parte di noi che lo vuole tutto nostro, che in realtà non lo è, e non lo è mai stato.
E’ venuto attraverso di noi. E’ qui e sta crescendo grazie a noi. Ma non ci appartiene.
Una delle lezioni più dure che una madre deve affrontare è proprio questa, e per quel che mi riguarda, tanto di cappello a chi ci riesce. Tracciare la strada che dovranno percorrere i nostri figli significa dire loro che non potranno mai andare da nessuna parte.

Un esercizio molto semplice, che mi è stato consigliato e che io condivido con voi, è questo: quando vi trovate di fronte ad una scelta da fare che riguarda la vita di vostro figlio/a, anche una piccola scelta come decidere di acquistare una maglietta piuttosto che un’altra, o andare a giocare in quel parco piuttosto che in quello sotto casa o ancora piccole decisioni che riguardano il quotidiano, cerchiamo di interpellare lui o lei, visto che le conseguenze della decisione riguardano lui o lei. E anche qualora nostro figlio scegliesse ciò che noi abbiamo scartato, diamogli l’opportunità di esprimere pienamente se stesso e, se possibile, accontentiamolo/a.
Funziona? Non ve lo so dire. Credo che la ricetta per fare una buona madre non l’abbia ancora trovata nessuno. Però c’è un modello, elevatissimo, a cui tutte possiamo ispirarci. Tanto tempo fa, è vissuta una donna, che pur sapendo che il proprio figlio prima o poi sarebbe stato preso dal nemico e condannato a morte, a causa della vita che aveva deciso di intraprendere, lo ha lasciato fare nella piena libertà. Quella donna è la Vergine Maria.